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L’ARTE UBIQUA DI ACCURSIO TRUNCALI

Il microcosmo artistico di Accursio Truncali è dinamico per antonomasia, coerente e contraddittorio, dolce e salato. Praticamente ossimorico. Si è appena cercato d’inquadrarlo stilisticamente, ma ecco che lo si ritrova immediatamente altrove, di continuo. Infatti sfugge, essendo materia semovente, scappa di qua e di là, e non smette mai di sorprendere. Un eterno filo rosso carsico,  presente a singhiozzo. Materiali che vivono, muoiono, si trasformano. Rompicapi a perdere. Cerchioni, tappi corona e coperchi coprimozzo risemantizzati a sorpresa. Un telefono spinato — Testa — sembra ammonirci del fatto che la comunicazione, nel suo insieme, è costantemente in pericolo, appesa ad un filo di tortura perennemente in agguato. Un orinale promosso (sic!) ad oblò — Colloquium vitae — che dà sul buio di un fondo metallico cripticamente inciso, con tanto di matricola, ovviamente riconducibile al massimo ad un onirico e cieco meandro.


Non ci sono potenzialmente oggetti indenni dal micidiale e forsennato riciclo manipolatorio di Accursio Truncali. Tutto può andare bene, e nelle combinazioni più inaspettate, inedite. Mollette da bucato — ciao Marx — inestricabilmente s’ingorgano, spaesate e decontestualizzate, alimentando caotici cromatismi. Come un folle traffico metropolitano, forse — visto il titolo — veicolante idee in crisi, trasfigurato, recitato e rappresentato da extraterrestri di passaggio.  La destrutturazione è continua, la ristrutturazione invece sfuggente e sotterranea (emerge, scompare… a fasi irregolarmente alterne), incantando e spesso incatenando il nostro occhio indagatore. In un altrove contemporaneo un’antropomorfizzata e infuocata Sicilia, ruotata di novanta gradi, per cui in piedi, ci scruta, desolata e interrogativa, con due occhi smarriti, in mezzo ad un azzurrissimo mare che non spegne, né raffredda l’incandescente match atavico anticipato paradigmaticamente nel titolo: mafiaCONTROmafia. Non meno inquieta Lo stivale. Senz’altro italico. Ma di chi sarà mai? Ipotizziamo un astorico milite ignoto, di una guerra qualsiasi, comunque fratricida. Disfatto, esanime e adagiato, quasi  dormiente, di sonno eterno, ed etereamente sospeso in un “pietoso” background d’azzurro cangiante. Tappi corona malconci, fuoriusciti per disperazione, per fine corsa, giacciono. Sanno d’interiora, di requiem. Una metafora che invita al silenzio.  Già il Caos cosmico ce l’aveva anticipato che i tappi truncaliani non sanno di tappo, innanzi tutto in quanto ex tappi. Trasfigurati, rivivono, ri-vestiti, novelli attori, interpretano tutto quello che l’artista decide, diventando inaspettatamente malleabili e polisemantici, un po’ come i cerchioni, meticolosamente recuperati e certosinamente rimessi in sesto, ma da un’altra parte. Intanto le Cro(matite), appostatissime, cozzano minacciose fra di loro, coerentemente da metafora kit(s)ch intravista, promessa e regolarmente mantenuta. Il tutto sopra un tappeto rosso infernale che ci svela un sofficemente inquietante gesùbambino-puttino, con tanto di aureola, a dir poco spaesato, sollevato e messo in bella mostra da ignote mani, in un solitario e ben mimetizzato squarcio, tra pericolose  punte colorate, ascendenti e discendenti.

L’autoritratto invece, con quell’aria bucolica, sembra condurci presso anfratti sperduti, di misteriosi e magici boschetti. Sa di satiro infatti e di fauno, ma anche di civetta e barbagianni. Quel pizzetto caprinoide e quegli occhietti tristi e amabilmente selvatici, lì a sorreggere, a fatica, un esuberante ma evanescente nasone bananone… Su un immaginario tappeto sonoro ovviamente di flauto debussyano. Planando planando sopra i territori truncaliani, seguendo la musica ed anche il filo rosso di prima, ci ritroviamo e siamo i benvenuti (?) su un improbabile, quanto inquietante Pianeta del divertimento. Questa volta, come certe altre, il terreno del nostro Pictor è particolarmente misto, tra collage, carte, plastiche varie e disparati materiali assemblati per l’occasione. Dal celeste al blu notte, emerge un double-face  dalle contrastanti ed equivoche sembianze, comunque tutt’altro che predisposto all’edonismo del titolo.  L’espressione diventa torva e arcigna, per l’occasione, oscura e infine anche da vittima. Il busto, una massa informe di bottoni, scura ed inquietante, resa corpo, sembra fuoriuscito da una svilita e rottamata lampada da genio. L’insieme sembra materializzare inoltre una part-time nonché spettrale ed imminente tempesta marina, che si svolge in caduta libera, foriera di un inevitabile naufragio finale. Ma ecco  Paesaggio 2000, col suo sinistro effetto glamour. I cerchioni, liftati, si sono fatti forza, diventando improvvisata nonché fantasmagorica lingerie, per definire e aderire elegantemente — seguendo adeguatamente curve e falsipiani — ad un corpo di donna, frammentato nella sua essenza centrale, per cui decapitato e privo di arti. Ma l’universo di Truncali è infinito, per definizione. Le sorprese continuano. Gli studi crocifissione ci attendono, per stupirci in maniera bizzarra, con i loro modi volutamente dispettosi e caricaturali. Feti (crocifissi, abbandonati, sanguinanti…) colpiscono il nostro sguardo, ci sfidano, ci inseguono — Untitled 2006, Untitled 2009, Vendesi 2010. Tras(FIGURA)zione, 2010 mette a dura prova il nostro occhio, con quella massa di ideogrammi tatuati protetti da una assai poco bonaria maschera di ammaccatissima latta, che sa di contaminazione sicura. Dulcis in fundo, pur sorvolando a lacune, lungo un excursus volutamente parziale ed arbitrario, alla fine ci imbattiamo naturalmente in The End. Un’orgia-massa di cerchioni sta per sommergerci, sopra un’ordinata schiera di scuri e stupefatti profili bucati, anticipando un’enorme boccia sole/luna irregolarmente oculata, sapientemente trasfigurata, sebbene vistosamente accessoriata da rubizze e carnose labbra, che rimandano inesorabilmente all’eco vaginale primordiale.

 

Vincenzo Giuseppe Venezia

 
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